Il meccanismo che raccoglie l'energia posseduta da un fluido in movimento (energia cinetica) per trasmetterla a un asse (o albero) rotante e trasformarla in un'altra forma di energia è intimamente connesso a quello del mulino ad acqua, in uso presso i romani fin dal 70 a.C. Anche l'eolipila a rotazione ideata da Erone di Alessandria (I sec. a.C.) era basata sullo stesso principio di funzionamento. Si trattava di una caldaia a vapore costituita da una sfera in cui veniva introdotta e riscaldata acqua e che poteva ruotare attorno a un asse. La sfera portava due tubi a L, tra loro diametralmente opposti e perpendicolari all'asse: il getto di vapore provocava la rotazione dell'apparecchio. I mulini galleggianti, attribuiti al generale bizantino Belisario (500-565), erano costituiti da un insieme di ruote verticali montate su uno stesso albero rotante ai due lati di un battello solidamente ancorato in un corso d'acqua (in particolare nei punti in cui la corrente era piuttosto forte) e, mediante ingranaggi opportuni, azionavano delle mole per la macinazione di varie granaglie e altri materiali. Questi mulini galleggianti costituirono una sorgente di energia molto diffusa nel Medioevo e intorno al VII secolo, in base a osservazioni sul moto delle maree nei canali naturali, ispirarono gli ingegneri europei a considerare la
possibilità di sfruttare l'energia del mare. Intorno all'XI secolo, sulle coste settentrionali dell'Adriatico e su quelle inglesi, furono costruiti dei mulini mossi dalla marea. Nel 1582 l'ingegnere tedesco Peter Morice installò presso il ponte di Londra un mulino azionante una pompa idraulica premente che alimentava d'acqua tutta la città. Alla fine del XIX secolo, con la realizzazione delle prime centrali termoelettriche e idroelettriche , rifiorì l'idea di sfruttare l'energia del mare per costruire centrali maremotrici (o talassiche), soprattutto in vista della necessità di controllo delle piene di alcuni estuari. Solo alla fine del 1980 fu comunque valutata in senso reale la possibilità di produrre energia elettrica mediante centrali marine.
L'immensa riserva energetica offerta dal mare (il 70% della superficie terrestre è occupata da distese oceaniche con una profondità media di circa 4000 m) si presta a essere sfruttata principalmente in quattro modi: mediante l'utilizzo delle maree, del moto ondoso, delle correnti e del gradiente termico (differenza di temperatura fra due punti).
Il fenomeno delle maree consiste in un'oscillazione periodica del livello del mare, è generato dalle forze gravitazionali che la Luna e il Sole esercitano sulla Terra e segue cicli di circa 12 ore, con l'alternanza di innalzamenti (alta marea) e abbassamenti (bassa marea) del livello del mare. Le maree si presentano con diversi dislivelli da costa a costa e sono più intensi all'interno di insenature. Là dove c'è un'ampia escursione fra bassa e alta marea è possibile ipotizzare la costruzione di grandi impianti idroelettrici. Si pensi alle coste del Canada, dell'Argentina o a quelle affacciate sul Canale della Manica, dove il dislivello di marea tocca gli 8-15 m. In un bacino chiuso come il Mediterraneo le escursioni di marea sono poco marcate superando appena, nelle migliori condizioni, i 50 cm.
In generale lo sfruttamento delle maree al fine di produrre energia elettrica è poco efficace. Finora sono stati costruiti due soli impianti di questo tipo: il più importante si trova nell'estuario della Rance, in Francia, e ha una potenza complessiva di 240 megawatt (MW), l'altro è in Russia.
Meglio si presta invece alla produzione di energia elettrica il moto delle onde marine, provocate dall'azione del vento, delle maree, da perturbazioni atmosferiche violente o da terremoti sottomarini. Da sola un'onda di 2 m di ampiezza e della durata di 10 secondi è in grado di sviluppare una potenza di circa 60 chilowatt (KW). Sfruttare il moto ondoso non è però semplice a causa della notevole irregolarità di ampiezza, dimensione, periodo e direzione delle onde che si verifica anche quando non si tratti di sollecitazioni indotte da tempeste o eventi eccezionali. Senza contare che la frequenza media è molto bassa rispetto a quella della corrente elettrica e quindi deve essere aumentata con opportuni dispositivi meccanici. Tutti questi inconvenienti portano il costo della produzione elettrica dalle onde marine a superare di 10-20 volte quelli relativi allo sfruttamento di fonti convenzionali, motivo per
il quale allo stato attuale questa tecnologia riveste scarso interesse commerciale.
L'elevatezza dei costi ha indotto ad abbandonare anche gli studi effettuati riguardo la possibilità di sfruttamento dell'energia delle correnti marine. Ricerche in tal senso erano state avviate per esempio nello stretto di Messina dove la corrente, che transita a una velocità di circa 1,5 m/s, sarebbe in grado di alimentare una centrale da 200 megawatt. Il notevole sforzo economico, necessario per rendere operativi impianti elettrici che sfruttino le correnti marine, al momento non dà alcuno sbocco a centrali di questo tipo, anche nel caso di correnti oceaniche per le quali le potenze in gioco sono assai elevate.
Altre tecnologie per lo sfruttamento delle onde marine sono ancora a livello sperimentale. Si tenta per esempio di trasformare l'energia cinetica in energia meccanica o in energia di compressione dell'aria con vari metodi tra cui le boe oscillanti o sistemi deformabili immersi.
Fin dal secolo scorso si è presa in considerazione l'idea di sfruttare l'enorme quantità di calore accumulata nel mare per effetto dell'irraggiamento solare, soprattutto nelle aree tropicali. Le acque oceaniche dei mari caldi hanno uno strato superficiale di circa 100 m in cui la temperatura varia tra i 25 e i 30 °C. Alle stesse latitudini, quando si arriva a profondità di circa 500 m, la temperatura dell'aqua si avvicina a 0 °C: in mezzo chilometro in verticale si riscontra un gradiente termico di circa 20°C, sufficiente per la conversione di energia termica in energia meccanica mediante macchine basate sul ciclo termodinamico di Carnot.
Per lo sfruttamento del gradiente termico marino sono stati realizzati finora solo alcuni impianti sperimentali di piccola taglia in cui l'ammoniaca, operante come fluido di lavoro, passando dallo stato liquido a quello gassoso, si espande azionando una turbina o un motore alternativo. Anche in questo caso non si raggiunge una sfruttamento economicamente concorrenziale a quello delle fonti convenzionali, soprattutto in virtù delle difficoltà ingegneristiche di realizzazione degli impianti.
L'unica centrale di taglia industriale che utilizza l'energia del mare per la produzione di elettricità è quella realizzata nel 1966 in Bretagna. Questa centrale, ubicata sull'estuario del fiume Rance tra le città di Dinard e Saint Malo in corrispondenza di una diga costruita su un punto del fiume largo 760 m, sfrutta l'onda di marea, che in quel sito raggiunge i 13 m. Il suo funzionamento è discontinuo e produce energia secondo
le seguenti fasi: durante la bassa marea si aprono le paratoie della diga in modo che l'acqua del bacino, la cui capacità è di 170 milioni di metri cubi, defluisca in mare attraverso 24 enormi collettori che ospitano ciascuno una particolare turbina con alternatore incapsulato (turbina Kaplan a bulbo). Quando il livello del mare comincia a salire, si chiudono le paratoie e, non appena l'onda di marea è sufficientemente alta, si aprono di nuovo per far entrare l'acqua di mare nel bacino attraverso i collettori. La produzione di elettricità nelle due opposte fasi di alta e di bassa marea avviene grazie alla reversibilità delle turbine, che vengono alternativamente orientate con le pale verso il flusso dell'acqua in uscita dal fiume o in entrata dal mare, ed è possibile finché persiste un salto d'acqua tra i due lati della diga. Le centrali che sfruttano l'energia cinetica delle maree sono comunque molto simili a quelle idroelettriche; il vero problema è nel fatto che in tutto il mondo esistono solo 24 siti idonei all'installazione di impianti di questo tipo!